Fino a quando  ci ostineremo a tenere i nostri figli lontani dalla possibilità di scoprirsi deboli? Fino a quando ci preoccuperemo di rincorrere e contrastare i presunti responsabili di discutibili torti a cui le nostre creature sarebbero esposte?  Ed, infine, fino a quando continueremo a ragionare con la sola logica dell’ “hic et nunc”, allontanando nei nostri ragionamenti il tema della sconfitta, della perdita e persino della morte, puntando tutto sull’ambizioso, inarrivabile e impossibile motto centrato sul “non preoccuparti”, “ci penso io”, “andrà tutto bene”. Non ho una risposta a questo, ma certamente so che più sposeremo questa logica educativa, più questa pedagogia falcerà serenità e sicurezze nelle giovani generazioni.

Considerando questo inizio di scuola sono davvero molto preoccupato nel guardare i faccia non i nostri figli ma gli adulti  chiamati ad insegnare l’arte della vita, ad educare. Vedo molti genitori troppo chini e centrati sul  mito della prestazione, dell’efficienza, del risultato a tutti i costi,  alla ricerca di una difesa impossibile, se non a costo di danni incalcolabili, delle logiche protettive  del nido domestico.

Mi accorgo, ogni giorno di più di ragazzi angosciati, incapaci di far fronte alla durezza della realtà, di colpo presi da disturbi sempre più evidenti,  non solo  iscrivibili dall’insonnia all’autolesionismo, ma dal pianto interrotto a causa del fatto di dover andare a casa senza cellulare, perché ritirato a scuola (“se mi succede qualcosa!!!”), di allievi che si disperano a causa della sovrapposizione di due compiti, di studenti che vanno in crisi perché il professore interroga a sorpresa, di ragazzi che raccontano a casa  per filo e per segno episodi di incomprensione e di epiteti ricevuti da parti dei propri compagni. E di contro famiglie che al posto che usare la regola dei trenta secondi (il giusto tempo dell’ascolto e il giusto peso all’accaduto) assecondano le rimostranze e trasformano un problema da affrontare da parte dei ragazzi, in una condanna del giovane ad una incapacità di agito alla ricerca di una via di uscita più comoda perché “capiti e assecondati”. Famiglie che si prodigano in mail, in richiesta di colloqui o in segnalazioni quasi fosse davvero capitato  un dramma, sicuramente impaurite da quel che ad arte viene fatto circolare, e se si vuol anche da un’emotività provata da questi lunghi mesi di pandemia, e da una disaffezione al “buon senso” e ai giusti ricordi del “ai mie tempi”.

Accuditi con la didattica a distanza nella speranza illusoria che basti a colmare il vuoto scolastico, i nostri ragazzi si sono trovati improvvisamente esposti a solitudine e a sofferenza impreviste. Spesso abituati ad essere medicati da  “adulti psicoattivi”, molti adolescenti avvertono ora l’angoscia di chi non è mai stato educato ad affrontare un piccolo dolore, una prova media, e, tantomeno ha mai affrontato  la naturalità della morte, che fa parte dell’esistere.

Il tempo della tecnica ci impone la rapidità, l’immediatezza delle decisioni; il tempo dell’uomo richiede ancora, a mio avviso, la lentezza delle parole e il fluire silenzioso delle stagioni che alimentano il viaggio interiore. Per alleviare l’angoscia di un figlio non occorre una risposta impaziente, dettata dal non posso “vedere mio figlio triste”. La tristezza di molti adolescenti è in realtà la via privilegiata per riconciliarsi con le proprie ferite, per entrare seriamente nel proprio spazio interiore e nel silenzio dei propri vissuti. La tristezza è una forma normale di vita, non è una malattia. Lasciamo che la fragilità lavori e formi l’adulto di domani. Accompagniamo la sofferenza dei nostri adolescenti senza essere divorati dall’ansia, dalla fretta, dall’ossessione di non perdere tempo o peggio ancora dall’idolatria dello psicologo. Non c’è cura senza cuore, ma non c’è cuore senza affanno, non c’è crescita solida senza trauma.