Il pensiero di questo mese  attinge dalla magnificenza letteraria   de “Il Gattopardo” di Giuseppe Tomasi di Lampedusa edito nel 1958.

Questo romanzo tratteggia il contesto sociale scaturito a seguito dell’Unità d’Italia, in cui la classe latifondista meridionale e le nuove generazione sembrano immobili,  non disponibili a vivere il cambiamento che la storia sta proponendo, accettando tradimenti e oblii di qualsivoglia sorta. L’autore, tuttavia, è certamente interessato  a raccontare più che una storia, il grande tema e concetto di crisi (krisis, in senso greco, “separazione”), soffermandosi non tanto sui fatti di massa ma sulle possibilità di riscatto non raccolte dai singoli protagonisti.

Mi ha sempre impressionato l’enigmaticità di quella che è la frase-simbolo del romanzo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi», pronunciata da Tancredi, il rivoluzionario assennato, che conosce il dolore della frattura, di una società in rapido.

Il Gattopardo   sembra, in particolare, mettere  in luce una mancata presa di responsabilità nel presente, un’apatia soave, illusa ed illusoria. E’,  a mio modo di vedere, questa posizione molto simile a quell’atteggiamento indolente verso la realtà  che oggi si esprime in un senso d’impotenza sociale che irriga sommessamente la nostra società depressa, l’agito di molti adulti e, ahimè, di riflesso della stragrande maggioranza dei giovani.

Ma Tomasi sembra aver individuato il phàrmakon da offrire al lettore di fronte alla vuota, seppur sfavillante, retorica di sovvertimento, del cambiamento.

Egli suggerisce di non considerare il mondo come punto di partenza, che farà finta di cambiare ma rimarrà di fatto prigioniero di logiche che rispondono ai grandi interessi. Per Tomasi occorre riprendere in mano il proprio destino, avendo anzitutto cura interiore della propria persona piuttosto che, bruta manu, sugli altri. L’autore sembra dirci che le cose cambiano se anzitutto puntiamo su di noi e smettiamo di esteriorizzare la colpa, come si esteriorizza una rivoluzione. Lo scrittore, in terrmini profetici, fa notare come sia sempre più evidente quanto si sia disimparato a conoscere le responsabilità locali e  soprattutto personali, confidando in un cambiamento da fuori che mai verrà

Don Fabrizio, altro protagonista del romanzo, rivolgendosi all’inviato del governo sabaudo rappresentato in quel momento da Chevalley, afferma: «I Siciliani non vorranno mai migliorare per la semplice ragione che credono di essere perfetti: la loro vanità è più forte della loro miseria; ogni intromissione di estranei sia per origine sia anche, se si tratti di Siciliani, per indipendenza di spirito, sconvolge il loro vaneggiare di raggiunta compiutezza, rischia di turbare la loro compiaciuta attesa del nulla.

Con un linguaggio più attuale oserei dire che dobbiamo cominciare a smettere di essere dei “follower” per essere “influencer” di noi stessi, per interrompere quel gioco pericoloso di chi, volontariamente o involontariamente, sta al gioco della “massa”, della “collettività” che, in genere difetta di innovazione, adattabilità e soprattutto sana opportunità.  Mi pare chiaro che l’uomo ami lo slogan più della verità, perché è comoda discolpa.  Ma noi non possiamo lasciarci vivere da vocaboli che stanno lì fermi, muti, ai quali conferiamo autorità sul nostro destino, persino sulla nostra morte interiore.

Ecco perché aspetto il Natale. Quello vero, quello che davvero auguro a me e a ciascuno di voi: il tempo della vita nuova, della vita promettente, il tempo di Dio che si fa uomo per dirci che “è possibile!” vivere nella pienezza delle cose, che a noi sono date perché si abbia a vivere in abbondanza di Spirito e di Umanità, godendo “la terra  e abitando con il cuore nel cielo,” come soleva dire il grande don Bosco.