Con questo articolo riprendo a pubblicare il contributo educativo mensile che vuole esser uno spazio libero di provocazione, silenzio, riflessione ed anche dissenso, certo che per essere migliori occorre sempre ritagliarsi del tempo per pensare, soprattutto confrontandosi con chi è scomodo, magari diretto e soprattutto del “mestiere”.

Quest’anno ho avuto la fortuna di iniziare l’anno vivendo con gli allievi di quinta gli Esercizi Spirituali ad Auschwitz/Cracovia e lì, tra le tante cose che sono capitate, mi sono rimasti in mente due piccoli fatterelli. Il primo nella chiesa frequentata da Karol Woityla, dove una signora anziana polacca ha richiamato un nostro studente che davanti all’Eucarestia, esposta per l’adorazione, si era seduto accavallando le gambe e accomodato sulla panca in maniera scomposta; mentre il secondo a Birkenau, dove la guida ha sgridato dei tedeschi che abbracciandosi teneramente si mettevano in posa per un selfie sul binario della morte.

Se la domanda che vi sovviene  è “dov’è il problema?”, ritengo che dobbiate continuare a leggere queste brevi righe o cercare qualcuno bravo che vi dia una mano.

Con buona pace del malsano buonismo,  senza essere in contrasto con il primato indiscriminato di libertà di espressione, evitando anacronismi e retorici pensieri, ritengo che per fare bene e cercare il meglio nella vita vada  ricercato e perseguito anzitutto il principio del riconoscimento e rispetto del luogo in cui mi trovo, adattando il mio comportamento alle regole esplicite ed implicite che esso porta con sé.

L’assunzione di un certo decoro,  cura del proprio aspetto, adozione di un certo contegno non debbano essere ignorati o snobbati: non si tratta di un mero adempimento esteriore, ma è un modo per contrastare il “laissez faire, laissez passer”, per andare oltre a quel permissivismo che ha messo in crisi il modello stesso della nostra  civiltà. Il richiamo non è, dunque, solo questione di bon ton, non ha solo un valore estetico, ma etico, in un contesto in cui ogni tentativo di dare una regola sembra essere considerato un attentato alla libertà. Certo non sarà solo e semplicemente un abito o un comportamento “misurato” a produrre un’inversione di tendenza nel modo di concepire la scuola, né si tratta di voler essere moralisti: la sensazione, per dirla con Paolo Sermonti, è che oggi si viva “in un campo di tensione tra il desiderio dell’autorità e il terrore dell’autoritarismo o, esattamente al contrario, tra il desiderio di autoritarismo e il terrore dell’autorità… Sappiamo che il diritto al desiderio, il diritto a un infaticabile consumo, il diritto ancor più grave al capriccio, non ci hanno portato da nessuna parte e ci hanno reso piuttosto infelici. Sarò banale, ma io credo sia cruciale il ripristino di una diffusa cultura della moralità. Sì, banale e moralista. Mi va benissimo. Il fatto che qui da noi il termine “moralista” abbia un unico significato deprecativo, la dice lunga sul genere di moralismo che pratica chi lo depreca. Vedo mestamente imperversare l’etica truccata, verticale e consumistica del desiderio, mentre io amerei che si ripristinasse un patto comune, capace di riattivare l’orizzontalità dei rapporti tra cittadini, con tutti i suoi negoziabili vantaggi”.

Tutto qui: dovremmo cercare di ripristinare quanto meno un’estetica sociale che valuti seriamente il ricco sistema di segnali che offriamo alla percezione e all’attenzione degli altri e che struttura le nostre relazioni.

La forma, dunque, è spesso anche sostanza (non solo nell’abbigliamento)

E per concludere questa mia provocazione e ragionamento condivido, abbassando il livello di riflessione, una circolare di una dirigente scolastica vicentina:

“A beneficio di tutti si ricorda che l’importanza del dress code non è avvertita come esigenza pressante solo al momento di entrare in discoteche, pub, club, feste private o affini ma anche – anzi, soprattutto – al momento di frequentare quel diverso (ed assai più importante) tipo di locali, anche noti come “locali scolastici”.

Ed infatti, chiunque debba, con più o meno piacere, condividere una considerevole parte del proprio tempo settimanale in questi ambienti comuni a tutti, è chiamato, per rispetto del luogo istituzionale e delle persone (voi studenti in primis) che ci lavorano, a rispettare un preciso dress code.

Si badi bene che non si tratta né di imporre uniformi, né di porre limiti alla creatività modaiola di alcuni, né, tantomeno, di impedire di esprimere le individualità di ciascuno mediante la scelta delle mises più originali, quanto, piuttosto, di continuare a svolgere – anche in questo caso – la primaria funzione della Scuola: educare. Educare, nello specifico, all’eleganza. Dal latino eligere (scegliere), l’eleganza è la capacità di scegliere, tra più alternative possibili, la sola adatta al caso concreto. Non a caso si tratta di un concetto estremamente affine a quello di etica.

Ed allora, così come un uomo in smoking, o una donna in abito da sera, non necessariamente saranno i più eleganti laddove l’occasione non richieda un abbigliamento del genere, nessuno di voi – rectius di noi – sarà elegante qualora dovesse vestirsi in maniera non consona al luogo/locale in cui si trova. Una Scuola, appunto.

A titolo meramente esemplificativo: a Scuola gli infradito non sono eleganti. In spiaggia, magari, sì.

A Scuola una minigonna non è elegante. In discoteca, magari, sì.

A Scuola, un pantalone corto non è elegante. E non lo è da nessun’altra parte.

A Scuola, far vedere le ascelle non è elegante. Dal dottore, magari, sì.

A Scuola, mostrare le proprie mutande mentre si cammina per i corridoi non è elegante. Se si dovesse diventare testimonial di qualcuno, magari, sì.

Da ultimo – certa di essere stata sufficientemente chiara sul comportamento che ognuno di noi sarà chiamato a tenere nel corso dei rimanenti giorni dell’anno scolastico che ci separano dalle giustamente desiderate vacanze – mi permetto di prevenire qualsiasi possibile istanza avente ad oggetto la pretesa percezione di temperature subsahariane che potrebbero, nell’ottica di qualcuno, fungere da giustificazione a scelte di abbigliamento più adatte ad una spiaggia che non ad una Scuola.

Abbiamo la fortuna di vivere in una zona del mondo beneficiata dal così detto clima temperato mediterraneo: senza entrare nello specifico, estati secche ed inverni miti. C’è di peggio.

Qualora doveste mai frequentare scuole situate in zone di clima equatoriale, ne potremo riparlare. Al momento, no

Saluti “calorosi”.”