Tra i fatti memoriabili degli incontri educativi che don Bosco compie, c’è anche quello con Carlo Gastini, piccolo garzone impiegato presso una barbiera di Torino, a cui il santo chiede nonostante l’inesperienza conclamata di fargli la barba con il rasoio affilato di un tempo, nonostante il padrone del negozio si opponesse. Don Bosco si sottoporrà a “queste torture” per diversi sabato e Carlo alla fine diventerà un ragazzo del suo oratorio; i due rimarranno amici tutta la vita e certamente Carlo avrà imparato a gestire professionalmente anche i volti zigomosi e annodati come quelli di don Bosco.
Nel commisurare e bilanciare libertà e fiducia in un processo educativo va, infatti, distinto quello che è il rischio accettabile con quello che, invece, è l’esposizione ad un pericolo certo. Oggi il problema di molti ragazzi, magari anche davanti alla pagella, è quello di essere eccessivamente fragili, forse anche a causa dell’eccessiva custodia e vigilanza genitoriale, mossa non da uno zelo educativo, ma da paure e premure eccessive, che tengono al riparo i nostri cuori ma non consentono ai giovani di fortificarsi come la vita richiede.
Mi è capitato fra mano un’interessante ricostruzione di alcune vicende capitate in America qualche decennio fa, che mi paiono appropriate rispetto a questa riflessione sulla differenza tra il rischio e il pericolo educativo.
“Nel 1978, a Chicago, Frank Nelson, un bambino ai primi passi, si arrampicò su uno scivolo di tre metri e mezzo con la madre Debra a pochi passi da lui. La struttura, installata tre anni prima, era conosciuta come “il tornado” perché lo scivolo si avvolgeva su se stesso, ma il piccolo non arrivò mai in fondo. Cadde nel buco fra il corrimano e i gradini, battendo la testa sull’asfalto.
Un anno dopo, i suoi genitori denunciarono il Chicago Park District e le due aziende che avevano costruito e installato lo scivolo. Theodora Briggs Sweeney, paladina dei consumatori e consulente sulla sicurezza della John Carroll University, nei pressi di Cleveland, testimoniò in dozzine di processi e sposò la crociata pubblica a favore di una riforma dei parchi giochi. “. Come risultato, nel 1981 la Consumer Product Safety Commission pubblicò il primo “Manuale per la sicurezza nei parchi giochi”. In una pubblicazione comune, la Sweeney e Frost sollecitarono un’”ispezione immediata” di tutte le strutture installate prima del 1981 e la rimozione di quelle irregolari A Frank Nelson vennero garantiti un minimo di 9,5 milioni di dollari. Maurice Thominet, l’ingegnere capo del Park District, raccontò al Chicago Tribune che la città avrebbe dovuto “controllare tutte le nostre attrezzature con scrupolosa attenzione” e quasi certamente rimuovere tutti gli scivoli “tornado” e qualche altra struttura. All’epoca, un lettore scrisse al giornale: “Non avvengono più incidenti?… Una madre può correre il rischio di portare il suo bambino in cima a un “tornado”, con tutte le migliori intenzioni, e avere un incidente?
Dopo qualche anno però, Joe Frost, vecchio compagno della Sweeney nella crociata per la sicurezza, scriveva: “Gli adulti sono giunti alla determinazione errata che i ragazzi debbano essere protetti da qualsiasi rischio di farsi male… Nel mondo reale, la vita è piena di rischi – finanziari, fisici, emotivi, sociali – e un ragionevole rischio è essenziale per un sano sviluppo verso l’età adulta”.
Ma l’ironia della sorte è che la nostra brama di sicurezza non ha fatto una grossa differenza nel numero di incidenti che riguardano i giovani. Secondo il Sistema Nazionale di Sorveglianza Elettronica degli Incidenti, che monitora il ricorso agli ospedali, nel 1980 la frequenza delle visite al pronto soccorso in relazione alle attrezzature dei parchi giochi e a quelle casalinghe è stata di 156.000 volte (una visita per ogni 1.452 americani). Nel 2012 è stata di 271.475 volte (una ogni 1.156 americani). Anche il numero dei decessi non è cambiato granché. Dal 2001 al 2008, la Commissione per la Sicurezza del Consumatore ha registrato 100 morti associati alle attrezzature dei parchi giochi – una media di 13 all’anno, o 10 in meno rispetto al 1980.

E allora, concludo, con alcune domande. Quello che impedisco ai miei figli di fare far star bene a me o giova a loro? E quell’ansia di controllo, magari affidata al cellulare (sic! Sempre più allievi devono chiamare casa al mattino per avvisare di essere arrivati a scuola) giova all’”irrobustimento”, garanzia per una vita serena e adulta? Quanto la mia vigilanza si riduce a gesti banali trascurando la complessità di uno sguardo educativo profondo?